Intervento scritto consegnato dal senatore
Giuseppe Lumia
Sulle stragi 92/93 la Commissione parlamentare
antimafia e` chiamata a dare il meglio di se´. Il Paese merita risposte piu` puntuali
da un’inchiesta che ha la finalita` di individuare le responsabilita` politiche
con rigore e autonomia dalle nostre stesse appartenenze politiche e con la
massima severita`, tenuto conto che la sfida contro cosa nostra e le altre
mafie attiene ai doveri piu` alti dell’agire democratico. La trattativa, o
meglio le trattative, sono ormai un dato difficilmente oscurabile. L’approccio
negazionista e` smentito continuamente dalle acquisizioni che pure in questa
Commissione parlamentare antimafia abbiamo potuto svolgere. Anche la stessa
impostazione minimalista non regge di fronte a una serie di dati che, non solo
in sede giudiziaria ma anche nei lavori della nostra Commissione, emerge nella
loro tragica evidenza.
A distanza di poco piu` di quindici anni dalle stragi
eseguite da cosa nostra nel 1992-93 a mettere in discussione taluni risultati
cui si era giunti nella ricostruzione dei fatti in sede giudiziaria, furono,
tra l’altro, le dichiarazioni rese all’autorita` giudiziaria dal collaboratore
di giustizia Gaspare Spatuzza. Furono proprio le sue rivelazioni a dare il via
a nuovi approfondimenti sia sulle modalita` esecutive della strage di via
D’Amelio del 19 luglio 1992 sia sullo scenario nel quale si era sviluppata
l’azione violenta di cosa nostra e sull’interlocuzione che contemporaneamente
quell’organizzazione criminale aveva instaurato con esponenti del mondo
politico, istituzionale e imprenditoriale del paese.
Ne derivarono nuovi impulsi che hanno condotto le
Procure della Repubblica di Caltanissetta, Firenze e Palermo ad avviare nuove,
alle volte eclatanti, iniziative processuali.
Dalle parti piu` sensibili della societa` italiana si
avvertı` la necessita` di uno sforzo, per certi versi inedito, di fare luce sul
biennio nel quale, in contemporanea con la scelta stragista di cosa nostra, era
tramontata la cosiddetta prima Repubblica e aveva preso le mosse quella che
convenzionalmente e` stata indicata come seconda Repubblica. Si capı` che si
era di fronte a una vera e propria questione nodale della nostra democrazia: la
maturita` del nostro sistema democratico derivava, e deriva, dalla capacita` di
appropriarsi una volta per tutte della verita`, senza zone d’ombra e senza
sconti.
A questa domanda di verita` da parte del Paese – che e` un
bisogno di verita` giudiziaria, di verita` politica e di verita` storica – si
trova a rispondere oggi questa Commissione parlamentare, all’esito
dell’attivita` che si e` sviluppata a partire dal 2010. Cio` deve fare nel piu`
assoluto rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza degli organi
giurisdizionali ai quali compete la ricostruzione dei fatti in sede
processuale, evitando una sovrapposizione rispetto a essi, ma al contempo con
la consapevolezza dei doveri che incombono in capo alle istituzioni della
politica di offrire al Paese parole di verita` su quei fatti, susseguitisi fra
il 1992 e il 1994, che hanno inciso in modo determinante sulla storia d’Italia,
cosı`, peraltro, dando adempimento ai propri compiti istituzionali, come
risultanti dalla legge istitutiva di questa Commissione.
* * *
Quella fase stragista di cosa nostra aveva avuto in
realta` un’anticipazione nel 1989, con l’attentato compiuto all’Addaura il 20
giugno di quell’anno, ai danni del dottor Giovanni Falcone e dei magistrati
elvetici Carla Del Ponte e Claudio Lehmann. La delegazione elvetica guidata da
Carla Del Ponte si occupava del riciclaggio del denaro di cosa nostra in esito
a una proficua collaborazione che si era instaurata gia` da tempo con
l’attivita` di Giovanni Falcone. Era stato proprio nell’ambito di tale
collaborazione fra il magistrato palermitano, in quel momento in servizio alla
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, che nel febbraio 1989
a Lugano, nel corso dell’audizione dell’imprenditore bresciano Oliviero Tognoli,
arrestato per il riciclaggio dei proventi dei traffici illeciti di cosa nostra
oggetto dell’indagine denominata «Pizza Connection», Giovanni Falcone e Carla
Del Ponte avevano acquisito informalmente da Tognoli la notizia che il dottor
Bruno Contrada si era reso responsabile anni prima di una fuga di notizie che
aveva consentito allo stesso Tognoli di sfuggire all’arresto. Tognoli si era
poi rifiutato di riferire ufficialmente a verbale il nome del funzionario di
polizia. L’attentato all’Addaura nei confronti di Giovanni Falcone e dei
magistrati elvetici, orchestrato secondo lo stesso Falcone da «menti
raffinatissime», e` stato oggetto negli anni scorsi, dopo un primo processo
giunto a condanne definitive per mandanti ed esecutori intranei a cosa nostra,
delle rivelazioni, ritenute credibili da parte dei magistrati, del
collaboratore di giustizia Angelo Fontana, che ha ribadito il coinvolgimento
nella fase esecutiva dell’attentato di mafiosi appartenenti alle famiglie
dell’Acquasanta, guidata dai Galatolo, e di Resuttana, guidata dai Madonia.
Sulla scorta delle dichiarazioni rese da Angelo
Fontana, in esito all’incidente probatorio eseguito dall’autorita` giudiziaria
di Caltanissetta, e` stato identificato, sui reperti sequestrati in prossimita`
del luogo dell’attentato, il profilo genetico del mafioso Angelo Galatolo del
1966.
L’attentato presso l’abitazione di vacanza di
Giovanni Falcone all’Addaura era stato preceduto, poche settimane prima, dalla
divulgazione di cinque lettere anonime con le quali l’autore aveva provveduto a
spargere veleni, tra gli altri, contro Giovanni Falcone al riguardo del rientro
in Sicilia del collaboratore di giustizia Salvatore Contorno e del suo
successivo arresto. Le lettere del «corvo» sono rimaste fino a oggi prive di
responsabili compiutamente identificati. Di certo puo` dirsi pero` che la
campagna di veleni rivolta contro Giovanni Falcone rientro` inequivocabilmente
nella campagna di discredito che fu, in fatto, la premessa per l’esecuzione
dell’attentato all’Addaura, mirato a colpire un magistrato in quello stesso
momento vittima di una bieca attivita` di delegittimazione professionale e
morale che non ha precedenti.
Non si puo` dimenticare, infatti, che fin dai primi
momenti successivi alla scoperta dell’ordigno destinato a esplodere nella
scogliera antistante l’abitazione del magistrato palermitano (ordigno oggetto
di una sconsiderata attivita` di distruzione che ha reso impossibile
accertamenti plausibilmente rilevanti), venne messa in circolo, perfino da
ambienti asseritamente impegnati nella lotta alla mafia, la voce che si fosse
trattato di un finto attentato, in realta` addirittura organizzato in qualche
modo dalla stessa vittima. Quella insulsa campagna diffamatoria (cosı`
stigmatizzata dalla Corte di cassazione: «infame linciaggio da parte di
ambienti istituzionali, il cui unico scopo era la delegittimazione») proseguı`
per un tempo non breve e venne definitivamente accantonata solo quando Giovanni
Falcone fu infine assassinato, nella strage di Capaci.
In parallelo a quella campagna di delegittimazione di
Falcone, nel processo celebratosi a Caltanissetta per l’attentato all’Addaura
e` stato accertato che vi fu anche una colpevole operazione mirata a sminuire
l’enorme gravita` del tentativo stragista, con la derubricazione di esso a un
semplice atto minatorio, insuscettibile di pratici effetti, ad opera di
autorevoli soggetti istituzionali quali Domenico Sica, al tempo capo dell’Alto
commissariato antimafia, Francesco Misiani, magistrato addetto all’ufficio
guidato dal dottor Sica, e Mario Mori, al tempo comandante del Gruppo
Carabinieri di Palermo. Al riguardo, la sentenza emessa dalla Corte di
cassazione il 19 ottobre 2004 e` stata tranciante: «Resta il dato sconcertante
che autorevoli personaggi pubblici, investiti di alte cariche e di elevate
responsabilita`, si siano lasciati andare, in una vicenda che, per la sua
eccezionale gravita`, imponeva la massima cautela, a cosı` imprudenti
dichiarazioni tali da fornire lo spunto ai molteplici nemici di inventare la
tesi del falso attentato».
Simili anomalie che hanno avvolto l’attentato
all’Addaura meritano tutta una serie di approfondimenti e un’adeguata
ricostruzione in sede giudiziaria, anche in relazione al plausibile
coinvolgimento nell’organizzazione del delitto, in concorso con
l’organizzazione cosa nostra, anche di soggetti estranei alla stessa («le menti
raffinatissime» di cui parlo` fin dall’immediatezza lo stesso Falcone). Tanto
piu` cio` va rilevato, in quanto la mancata uccisione di Giovanni Falcone
all’Addaura fu la premessa dell’eclatante attentato compiuto a Capaci meno di
tre anni dopo.
Tuttavia, a proposito degli aloni di mistero che le
istituzioni finora sono state incapaci di rimuovere, bisogna qui evocare un
gravissimo delitto, tuttora impunito, commesso a brevissima distanza temporale
dall’attentato all’Addaura. Il riferimento e` al duplice omicidio che il 5
agosto 1989 vide vittime il poliziotto Antonino Agostino e la giovane moglie.
Talune fonti acquisite dall’autorita` giudiziaria hanno collegato tale delitto
all’attentato all’Addaura, essendone stato in sostanza una conseguenza, per un
qualche ruolo giocato dal poliziotto Agostino nello sventare l’agguato al
dottor Falcone o per qualche notizia entrata in suo possesso al riguardo dello
stesso episodio delittuoso. Sul punto l’autorita` giudiziaria non ha raggiunto
alcun risultato e questa Commissione parimenti non e` in grado di esprimere una
valutazione compiuta. Alcune precisazioni sono pero` doverose. Se sulle ragioni
dell’assassinio del poliziotto Agostino e della moglie e sulla stessa identita`
di mandanti ed esecutori materiali in sede giudiziaria non e` ancora stata
trovata una risposta esauriente, con grado di certezza si puo` affermare che
nell’immediatezza del duplice omicidio fu compiuta una sordida attivita` di
depistaggio finalizzata, secondo quanto risultante da intercettazioni disposte
dall’autorita` giudiziaria, all’individuazione e alla sparizione di documenti
custoditi riservatamente da Antonino Agostino. Di tali attivita` vanno valutate
le responsabilita` anche all’interno della stessa Polizia di Stato. Le
attivita` d’indagine furono condotte con modalita` sconcertanti, mirate
all’individuazione di sconnesse causali ricollegabili alla vita privata del
poliziotto ucciso, dalla Squadra mobile di Palermo diretta al tempo dal dottor
Arnaldo La Barbera, protagonista – in via di verifica giudiziaria- anni dopo di
altri e ancor piu` scandalosi depistaggi nell’ambito delle indagini sulla
strage di via D’Amelio.
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Com’e` noto, il 30 gennaio 1992 la sentenza della
Corte di cassazione confermo` l’impianto accusatorio del maxiprocesso istruito
dall’Ufficio istruzione diretto dal dottor Antonino Caponnetto e, in
particolare, dal dottor Giovanni Falcone e dal dottor Paolo Borsellino. Per la
prima volta sull’organizzazione cosa nostra si abbatte´ con forza la potesta`
punitiva dello Stato, con la condanna all’ergastolo di tutti i suoi esponenti
di vertice. Il risultato del lavoro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – ma
anche del sacrificio professionale e umano, quasi esistenziale, se solo si
pensa al vero e proprio «esilio» dai due magistrati trascorso all’Asinara per
la stesura della sentenza di rinvio a giudizio – giungeva a compimento con un
risultato straordinario, che per una volta poneva nel nulla le coperture
istituzionali delle quali cosa nostra aveva goduto e che le avevano assicurato
fino a quel momento una complessiva impunita`.
In realta`, gia` a dicembre 1991, quindi prima ancora
della sentenza conclusiva del maxiprocesso, l’organizzazione cosa nostra, su
sollecitazione del suo capo indiscusso del momento Salvatore Riina, aveva
adottato una vera e propria delibera con cui si avviava una campagna di sangue
finalizzata a un duplice obiettivo: da un lato, la soppressione dei propri
nemici storici, Falcone e Borsellino, portando a definitiva esecuzione una
decisione di massima gia` adottata in danno di entrambi nei primi anni Ottanta
(e concretatasi nel 1989 nel fallito attentato all’Addaura ai danni del dottor
Falcone); d’altro canto, l’eliminazione di esponenti della politica un tempo
affidabili alleati (in primis, l’europarlamentare democristiano di corrente
andreottiana Salvo Lima, ma anche altri, a partire dall’allora ministro
Calogero Mannino, esponente della sinistra DC) e ad un tratto, evidentemente
nell’ottica dell’individuazione di diversi referenti, non piu` sentiti come
valide garanzie per il perseguimento degli interessi di cosa nostra.
Tuttavia, per comprendere le ragioni della scelta
di cosa nostra di tagliare i ponti col passato, adottata in epoca precedente
alla sentenza della Corte di cassazione del 30 gennaio 1992, occorre osservare
che i vertici di cosa nostra ebbero contezza in anticipo del rischio di non
riuscire a ottenere soluzioni favorevoli nel maxiprocesso. Del resto, il
segnale netto che il giudizio di legittimita` sul maxiprocesso fosse diventato
una spada di Damocle sugli orizzonti di cosa nostra era provenuto dalle vicende
con cui si era giunti alla composizione della Corte assegnataria del fascicolo,
con l’adozione del principio – derivante da un’intuizione di Giovanni Falcone e
del ministero di grazia e giustizia nel quale il magistrato palermitano era
andato a dirigere gli affari penali – della rotazione per l’assegnazione dei
processi in materia di criminalita` organizzata, in rottura con la prassi che
aveva visto pressoche´ costantemente il dottor Corrado Carnevale presiedere le
corti (e spesso annullare le sentenze) nei piu` importanti processi per fatti
di criminalita` organizzata. Cosı` cosa nostra, che aveva provato a
condizionare il corso del giudizio di cassazione sul maxiprocesso anche con
l’uso della violenza, della quale era rimasto vittima il 9 agosto 1991 il
dottor Antonino Scopelliti, sostituto procuratore generale presso la Corte di
cassazione a cui era stato affidato il compito di rappresentare la pubblica
accusa nel giudizio di legittimita`.
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Il 12 marzo 1992 a Palermo, in localita` Mondello,
venne assassinato l’onorevole Salvo Lima. Su tale delitto si e` giunti a
pronunciamenti definitivi di responsabilita` nei confronti dei mandanti e degli
esecutori, tutti appartenenti a cosa nostra. Del vertice di
quell’organizzazione criminale, Bernardo Provenzano era l’unico esponente a non
essere stato sottoposto a processo per l’omicidio Lima. Da ultimo, in seno al
procedimento a carico di Bagarella + 11 e relativo, tra l’altro, alla
cosiddetta «trattativa Stato-mafia», anche per Provenzano la Procura della
Repubblica di Palermo ha esercitato l’azione penale con il ruolo di mandante del
delitto. L’assassinio dell’onorevole Lima fu un colpo che cosa nostra ritenne
di assegnare anche all’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti.
Quest’ultimo, riconosciuto con sentenza definitiva esponente politico contiguo
all’organizzazione cosa nostra fino alla primavera del 1980, era tuttavia in
quel momento alla guida di un governo che, sotto la spinta del ministro della
giustizia Claudio Martelli (il quale dal febbraio 1991 aveva ottenuto la
fondamentale collaborazione di Giovanni Falcone nel ruolo di direttore degli
affari penali) e del ministro dell’interno Vincenzo Scotti, aveva promosso
misure efficaci, e senza precedenti, nel contrasto alla criminalita`
organizzata.
L’omicidio dell’onorevole Lima intervenne in piena
campagna elettorale per le elezioni politiche del 5 e 6 aprile 1992, una
campagna elettorale che fu segnata anche dall’avvio dell’indagine della Procura
della Repubblica di Milano denominata «Mani pulite» e che diede avvio, a
cascata, a una serie innumerevoli di iniziative giudiziarie che, sotto la
denominazione di «Tangentopoli», portarono alla luce la corruttela e le
illegalita` diffuse nel campo della politica, delle pubbliche amministrazioni e
dell’imprenditoria italiana e che accelerarono la caduta di una grossa fetta
del ceto politico. Ma al tempo dell’omicidio Lima si era gia` in attesa della
scadenza del mandato del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, le cui
dimissioni il 25 aprile 1992 anticiparono ulteriormente l’elezione del nuovo
Capo dello Stato.
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Quasi in coincidenza dell’uccisione dell’onorevole
Salvo Lima, ed anzi ancor prima di essa, l’onorevole Calogero Mannino emerge
che abbia avviato contatti con l’allora Comandante del Raggruppamento operativo
speciale dei Carabinieri, generale Antonio Subranni, per il tramite del
maresciallo Giuliano Guazzelli (soggetto fidato del generale Subranni e il cui
figlio era al tempo consigliere provinciale per la DC ad Agrigento, proprio nel
territorio in cui leader indiscusso di quel partito era l’allora ministro Mannino),
e con il dottor Bruno Contrada, in quel momento alto dirigente del Sisde. La
ragione possibile dell’iniziativa dell’onorevole Mannino potrebbe essere
ricercata nel timore che quell’esponente politico in quel momento ebbe di
rimanere vittima della violenza di cosa nostra, come accertato in sede
giudiziaria da fonti convergenti e come pure gia` al tempo riferito dagli
organi di informazione, in qualche caso riportando perfino dichiarazioni
attribuite allo stesso onorevole Mannino. Sul punto, va qui rilevato come tale
iniziativa, che vide coinvolti un esponente politico di primaria importanza
nella DC nazionale e dell’intero partito in Sicilia, il comandante del R.o.s. e
un soggetto di vertice del Sisde avvenne al di fuori di ogni formalita`, in
guisa di contatti riservati che evidentemente preludevano ad attivita` e a
risultati che dovevano rimanere altrettanto riservati. E` ovvio, infatti, che,
se si fosse trattato di occuparsi delle esigenze di sicurezza per l’incolumita`
dell’onorevole Mannino e dell’adozione di accorgimenti relativi alle misure
tutorie apprestate allo stesso, non si sarebbe potuto prescindere
dall’ufficiale coinvolgimento del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica
nazionale (attese le qualita` del soggetto) e di quello provinciale del
territorio di residenza e operativita` dell’onorevole Mannino. Nulla di cio`
venne fatto. E`, poi, da aggiungere che e` rimasto assolutamente oscuro il modo
in cui l’onorevole Mannino avesse potuto avere contezza della deliberazione di
morte adottata da cosa nostra ai danni dello stesso, dell’onorevole Lima e di
altri esponenti politici ancora.
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Il 4 aprile 1992 in provincia di Agrigento venne
ucciso il predetto maresciallo Guazzelli. In relazione a tale delitto le prime
indagini, curate proprio da quel R.O.S. al cui vertice si trovava il generale
Subranni, come detto legato da vincoli personali a Guazzelli, portarono
all’incriminazione e all’iniziale condanna di esponenti della Stidda,
organizzazione criminale contrapposta a cosa nostra nel territorio
sud-orientale della Sicilia. Solo anni dopo fu accertato con sentenza
definitiva che l’omicidio Guazzelli fu opera di cosa nostra. La causale
dell’omicidio Guazzelli e` rimasta tuttavia abbastanza nebulosa. E` un vuoto
che necessitera` anche in futuro di ulteriori sforzi per approfondire ogni
possibile aspetto sui reali motivi per i quali cosa nostra elimino` una persona
che si era trovata coinvolta nelle iniziative preliminari alla «trattativa
Stato-mafia» e che aveva la singolare caratteristica di essere legata al
contempo, quasi a fare da canale stabile di comunicazione, fra l’onorevole
Mannino e il ROS dei carabinieri.
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E` il caso qui di fare richiamo a un pronunciamento
giurisdizionale che ha acquistato autorita` di cosa giudicata. Infatti, troppo
spesso, con malintesa prudenza o con doloso negazionismo, si e` assistito a
pronunciamenti tesi a mettere in dubbio la stessa esistenza di contatti tra
esponenti istituzionali e uomini di cosa nostra o referenti diretti della
stessa organizzazione criminale. Deve, invece, rilevarsi che gia` quindici anni
fa la Corte di assise di Firenze, al riguardo dei contatti intrattenuti fra uomini
di vertice del R.o.s. e il mafioso Vito Ciancimino, con la sentenza emessa il 6
giugno 1998 nel processo a carico di Bagarella ed altri per le stragi e gli
attentati eseguiti nel 1993 a Firenze, Milano e Roma da cosa nostra, attesto`
senza mezzi termini che di trattativa si tratto` e che essa aveva certamente
avuto la capacita` di confortare l’organizzazione mafiosa siciliana nell’idea
che la commissione di stragi fosse utile ai suoi fini e a quelli degli ambienti
ad essa collegati. Sul punto, in presenza di un pronunciamento giudiziario
definitivo che peraltro e` dotato di motivazione puntuale e convincente ed ha
trovato conforto anche in ulteriori pronunciamenti giurisdizionali – come la
sentenza della Corte di assise di Firenze del 5 ottobre 2011 e come l’ordinanza
di custodia cautelare nei confronti di Salvatore Madonia e altri emessa in
relazione alla strage di via D’Amelio il 2 marzo 2012 dal Gip presso il
Tribunale di Caltanissetta – si deve ribadire che la «trattativa Stato-mafia»,
nel senso della trattativa fra non secondari rappresentanti dello Stato e cosa
nostra e` un fatto storicamente verificatosi, che ha segnato la recente storia
d’Italia e che continuera` a produrre i suoi effetti fino a quando il Paese non
sara` in grado di accertare prima e di accettare poi tutta la verita` su tale
evento. Con la dovuta puntualizzazione che non si e` trattato di un accadimento
sviluppatosi con cadenze lineari e modalita` prefissate. Anzi, va detto che in
modo piu` appropriato occorre parlare di piu` fasi della «trattativa», quando
non di piu` «trattative» intersecatesi e sovrapposte fra loro.
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Come detto, cosa nostra da tempo aveva in animo di
uccidere il dottor Giovanni Falcone e in effetti nel giugno 1989 era passata
all’esecuzione del delitto, non portata a termine per cause indipendenti dalla
volonta` degli uomini di cosa nostra. Dopo le riunioni della commissione
provinciale e pure della commissione regionale di cosa nostra, intervenute alla
fine del 1991, su cui bisognerebbe fare piena luce – luoghi, coperture e
modalita` organizzative – nuovamente l’organizzazione mafiosa passo` alle fasi
esecutive per l’eliminazione di colui che rappresentava uno dei due principali
storici antagonisti.
Tuttavia, va osservato che nei primi mesi del 1992
cosa nostra si determino` in un primo momento a procedere all’assassinio di
Giovanni Falcone nella citta` di Roma, ove il magistrato operava ormai da un
anno. Ad occuparsene furono chiamati esponenti di cosa nostra appartenenti alle
famiglie dei mandamenti di Trapani (rispetto ai quali agiva gia` con ruolo di
leader il boss Matteo Messina Denaro) e di Brancaccio (articolazione mafiosa
diretta da Giuseppe Graviano e nella quale era diventato esponente
rilevantissimo l’oggi collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza). Tuttavia,
tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo del 1992, come pacificamente
accertato in sede giudiziaria, i killer vennero richiamati in Sicilia.
Iniziarono a quel punto i preparativi che trovarono
tragica riuscita il 23 maggio 1992 con l’attentato di Capaci, che rese vittime
il dottor Giovanni Falcone, la moglie dottoressa Francesca Morvillo e tre
poliziotti della scorta. Si tratto` del delitto massimamente eclatante mai
compiuto da cosa nostra, con modalita` tali che l’hanno fatto definire da parte
di alcuni dei suoi esecutori come «attentatuni». Della strage di Capaci si
occuparono materialmente esponenti mafiosi dei mandamenti di San Giuseppe Jato,
di Porta Nuova, di San Lorenzo, della Noce, di Brancaccio, con l’aggiunta di
Pietro Rampulla (uomo d’onore della famiglia di Mistretta ma fortemente legato
all’articolazione catanese di cosa nostra), il quale della strage fu
l’artificiere, ovvero l’esperto tecnico-balistico. Al riguardo di Rampulla deve
segnalarsi come si tratti di un soggetto che aveva avuto, al tempo della sua
frequentazione all’Universita` di Messina, all’inizio degli anni Settanta, una
militanza in frange violente di estrema destra, nel corso della quale Rampulla
fu perfino sottoposto a processo e condannato definitivamente per episodi di
violenza squadrista, in concorso con altri significativi esponenti di
organizzazioni criminali calabresi e siciliane, fra i quali merita di essere
citato il capo della famiglia mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto, in
provincia di Messina, Rosario Pio Cattafi. Va qui fatto un riferimento alle
dichiarazioni rese all’autorita` giudiziaria da Giovanni Brusca, che della
strage di Capaci fu il protagonista della fase esecutiva, essendo stato proprio
lui a utilizzare il telecomando che provoco` la spaventosa esplosione. Quel
telecomando, infatti, per il tramite di Rampulla, fu procurato a Brusca dalla
famiglia mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto, in quel momento capeggiata dai
boss Giuseppe Gullotti e Rosario Pio Cattafi, il quale ultimo, secondo plurime acquisizioni
giudiziarie, ha avuto nel corso di decenni rapporti con apparati investigativi
e di sicurezza.
L’esecuzione della strage di Capaci, come detto, ebbe
modalita` sconvolgenti, con l’esplosione di un intero tratto autostradale. Il
delitto avvenne in territorio del circondario del Tribunale di Palermo. La
competenza per le indagini e i processi si radico` innanzi all’autorita`
giudiziaria di Caltanissetta, ai sensi dell’art. 11 c.p.p.. Non, pero`, in
relazione alla figura di Giovanni Falcone, che gia` da tempo non era magistrato
in servizio nel distretto di Corte di appello di Palermo, bensı` in relazione
alla figura di Francesca Morvillo, magistrato in servizio presso la Corte di
appello di Palermo.
Alla data della strage di Capaci il procedimento presso
il Consiglio superiore della magistratura per la nomina del capo della Procura
della Repubblica di Caltanissetta, in sostituzione del precedente dirigente,
assegnato ad altro incarico, era in itinere. Il 26 maggio 1992 il plenum del
Consiglio superiore della magistratura delibero` la nomina del dottor Giovanni
Tinebra, che si insedio` all’inizio del successivo mese di luglio.
La strage di Capaci ebbe effetto sicuro anche nella
delicata fase politica, che in quel momento vedeva, gia` da tempo, il Parlamento
riunito in seduta comune per l’elezione del Presidente della Repubblica. E`
certo che l’esecuzione della strage di Capaci, tra le altre mire
dell’organizzazione cosa nostra, ebbe anche quella di rendere impraticabile
l’elezione al Quirinale del senatore Giulio Andreotti. In effetti, le
determinazioni del Parlamento subirono certamente una obiettiva turbativa per
effetto della strage di Capaci, tanto che si giunse in breve a un accordo
politico che porto` il 25 maggio 1992 all’elezione del Presidente Oscar Luigi
Scalfaro.
E` un dato giudiziariamente, storicamente e
politicamente accertato che il Presidente Scalfaro aveva, fin dai tempi in cui
quest’ultimo aveva svolto il ruolo di Ministro dell’interno, un rapporto
personale di carattere estremamente fiduciario con il prefetto Vincenzo Parisi,
gia` al vertice del Sisde e nel maggio 1992 Capo della Polizia. Il dato,
sintomatico di un canale diretto e informale fra il Capo dello Stato e il
vertice di uno degli apparati investigativi, e` oltremodo significativo, in
relazione a un periodo di transizione politica quale fu il biennio 1992-94, nel
corso del quale le linee ufficiali delle strutture del potere lasciarono il
passo a equilibri di natura sostanziale, non codificati.
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In un momento a cavallo della strage di Capaci,
prendono le mosse due vicende. La prima riguarda i contatti intavolati fra il
vertice del Ros (l’allora colonnello Mario Mori e l’allora capitano Giuseppe De
Donno, sotto la supervisione del generale Antonio Subranni, allora comandante
del ROS) e Vito Ciancimino fra la primavera e la fine del 1992. L’iniziativa
era stata presa da De Donno, che aveva rivolto una richiesta di incontro a Vito
Ciancimino, attraverso il figlio di questi, Massimo Ciancimino. Essa si
sviluppo` attraverso plurimi incontri fra gli ufficiali Mori e De Donno, da una
parte, e l’ex sindaco di Palermo, nella sua abitazione di Roma. Va detta una
parola netta sullo sviluppo di tale anomala interlocuzione. Infatti, a dispetto
della vulgata che i militari interessati e notevoli e importanti casse di
propaganda del mondo dell’informazione hanno provveduto a diffondere circa
l’ordinarieta` della situazione come il contatto con un confidente di polizia
giudiziaria, cio` e` privo di fondamento. Invero, se e` normale per la polizia
giudiziaria avere contatti con soggetti militanti in organizzazioni criminali
al fine di ricevere informazioni utili alle indagini o alla cattura di
ricercati, certamente siffatte situazioni non possono implicare una posizione
di tramite del confidente fra la polizia giudiziaria e l’organizzazione
criminale. Questa non e` piu` normale attivita` di polizia giudiziaria, bensı`
ne´ piu` e ne´ meno che una trattativa. E, del resto, come noto` acutamente la
Corte di assise di Firenze con la predetta sentenza del 6 giugno 1998, ad usare
il termine «trattativa» nel raccontare i loro contatti con Ciancimino furono
gli stessi Giuseppe De Donno (ripetute volte) e Mario Mori (prudentemente, in
un numero minore di casi). Non puo`, poi, essere trascurato un altro dato. Per
il periodo in cui quella trattativa si sviluppo`, il Paese e, non si puo`
nascondere, pure gli organi statuali erano precipitati in una situazione di
angosciante terrore (si pensi agli effetti che la strage di via D’Amelio
aggiunse, con effetto moltiplicatore, a quelli scaturiti dalla strage di
Capaci). Cosicche´ sembra priva di profili istituzionali la lettura tentata
dagli esponenti del R.o.s., secondo cui essi, a nome dello Stato, potessero
chiedere la resa a cosa nostra e la consegna ai due capi dell’organizzazione
mafiosa, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.
Si impone a questo punto una considerazione sulle
caratteristiche criminali di Vito Ciancimino. Infatti, come pacificamente
accertato in sede giudiziaria, Vito Ciancimino, nel suo ruolo di contiguita` a
cosa nostra, era uomo fiduciariamente legato a Bernardo Provenzano e umanamente
inviso a Salvatore Riina. Anche i due uomini d’onore che tennero il filo fra
Riina e Ciancimino per la trasmissione del cosiddetto «papello» (vera e propria
mozione contenente le richieste di cosa nostra allo Stato), ovvero Antonino
Cina` e Giuseppe Lipari, rientrano nella ristretta cerchia dei consiglieri
privilegiati di Bernardo Provenzano. Al riguardo di Lipari, anzi, occorre
ricordare che fino alla fine degli anni Settanta costui era stato il principale
gestore degli interessi di Gaetano Badalamenti, capomafia di Cinisi (paese
della moglie di Bernardo Provenzano) mandante dell’omicidio di Giuseppe
Impastato (episodio sul quale e` opportuno fare qui rinvio alla relazione
approvata all’unanimita` dalla Commissione parlamentare antimafia il 6 dicembre
2000, tanto piu` in relazione ai depistaggi praticati dall’allora maggiore
Antonio Subranni). Cio` rende per nulla implausibile l’ipotesi che Ciancimino
potesse essere coinvolto dagli ufficiali del R.o.s. anche per ottenere notizie
utili alla cattura dell’allora latitante Riina, con il conseguente
consolidamento della leadership mafiosa di Bernardo Provenzano. Tanto piu` se
si osserva che i vertici di quello stesso corpo investigativo, nelle persone
dello stesso Mori e del colonnello Mauro Obinu, si trovano oggi imputati per la
mancata cattura di Bernardo Provenzano il 31 ottobre 1995 nella localita`
Mezzojuso in provincia di Palermo. E tanto piu` se si considerano le parole di
Paolo Borsellino in un’intervista pubblicata dalla Gazzetta del Mezzogiorno il
3 luglio 1992: «Riina e Provenzano sono come due pugili che mostrano i muscoli,
uno di fronte all’altro. Come se ciascuno volesse far sapere all’altro quanto
e` forte, quanto e` capace di fare male».
Un’ulteriore puntualizzazione si impone. Di quella
trattativa (o di quella fase della trattativa) estrinsecatasi attraverso
l’interlocuzione fra il ROS e cosa nostra, mediata da Vito Ciancimino, ebbe a
parlare per primo, senza in realta` avere contezza dell’identita` degli
interlocutori di cosa nostra, il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca,
nel 1996. Solo in un momento successivo intervennero le deposizioni del
generale Mori e del capitano De Donno innanzi all’autorita` giudiziaria di
Firenze. Per lunghi anni poco altro era stato riscontrato dalla magistratura al
riguardo di tale vicenda. La situazione si e` rimessa in movimento piu` di
recente, su di essa senz’altro pesa il giudizio morale e politico di ritardate
denuncie e racconti di fatti significativi ma adesso va esercitata la massima
attenzione in sede giudiziaria, e in sede di Commissione parlamentare
Antimafia, per avere una migliore comprensione dei fatti intorno alla
trattativatrattative e dello stesso contesto istituzionale su cui si dipano` il
biennio stragista 92/93. Pertanto, vanno approfondite e verificate le dinamiche
e le responsabilita` di una trattativa gia` in atto prima della stessa strage
di Capaci, in sede di Commissione parlamentare Antimafia, oltre che nelle aule
giudiziarie.
* *
*
Nei giorni a cavallo della strage di Capaci, poi,
Marcello Dell’Utri, dirigente di Publitalia, societa` del gruppo Fininvest,
avvio` il progetto di costituzione di un nuovo partito politico, che trovo`
culmine nel 1993 e nel 1994 con la formale costituzione del partito Forza
Italia. Secondo quanto dichiarato da Giovanni Brusca, in quella fase a Riina si
proposero come possibili nuovi interlocutori politici, da un lato, proprio
Marcello Dell’Utri e, dall’altro, il leader dell’allora Lega Lombarda Umberto
Bossi.
* *
*
Il 19 luglio 1992 Paolo Borsellino e cinque
poliziotti vennero uccisi in via Mariano D’Amelio, con un attentato nuovamente
di marca stragista, attraverso l’esplosione di un’autobomba. E` stato accertato
che l’avvio della fase esecutiva dell’uccisione del dottor Paolo Borsellino
ebbe un’improvvisa e significativa accelerazione, a stretto giro rispetto al 19
luglio 1992. In quel momento, infatti, Giovanni Brusca era impegnato nei
preparativi per l’uccisione dell’onorevole Mannino e ricevette l’ordine di
soprassedere perche´ il vertice di cosa nostra aveva deciso un cambiamento
repentino nei propri programmi delittuosi. La stretta connessione temporale fra
i contatti avviati dal ROS (dopo i preventivi incontri del comandante di quel
reparto, il generale Subranni con l’onorevole Mannino) con cosa nostra
attraverso Vito Ciancimino e la scelta di rinunciare all’uccisione
dell’onorevole Mannino (e degli altri esponenti politici nazionali di cui alla
deliberazione adottata da cosa nostra nel dicembre 1991) e di accelerare
l’eliminazione di Paolo Borsellino fa ritenere ben piu` di un’ipotesi che il
magistrato palermitano rimase stritolato dalla trattativa avviata da esponenti
istituzionali con cosa nostra e rispetto alla quale il dottor Borsellino fu
ritenuto come un insormontabile ostacolo.
Le vicende giudiziarie sulla strage di via D’Amelio
rappresentano sicuramente il piu` grave e scandaloso episodio di inquinamento
delle attivita` d’indagine e processuali della storia Repubblicana di questo
paese, commesso con la falsa collaborazione con la giustizia di Vincenzo
Scarantino, di Salvatore Candura e di Francesco Andriotta.
Della gestione dei tre falsi collaboratori di
giustizia si occupo` uno speciale organo di polizia guidato dal dottor Arnaldo
La Barbera e nel quale operarono i poliziotti Mario Bo, Vincenzo Ricciardi e
Salvatore La Barbera. L’autorita` giudiziaria di Caltanissetta ha accertato la
falsita` delle dichiarazioni di Scarantino, Candura e Andriotta e le obiettive
anomalie che hanno caratterizzato la gestione della loro collaborazione con la
giustizia. E` stato accertato che il dottor Arnaldo La Barbera, deceduto nel
2002, nella seconda meta` degli anni Ottanta aveva collaborato con il Sisde.
Sulle ipotesi di reato a carico dei predetti poliziotti – Bo, Ricciardi e
Salvatore La Barbera – la Procura della Repubblica di Caltanissetta non ha
ancora concluso le indagini. Sul punto, dunque, bisognera` attendere le
determinazioni di quell’ufficio requirente.
Dalla vicenda Scarantino possono pero` trarsi alcune
valutazioni. Intanto, puo` dirsi con certezza che, al di la` delle
responsabilita` penali, i poliziotti guidati dal dottor Arnaldo La Barbera
hanno svolto un ruolo che comunque e` stato condicio sine qua non per la
perpetrazione delle colossali calunnie e dei colossali depistaggi attuati
attraverso le dichiarazioni di Scarantino. Ancora, non puo` trascurarsi come la
palese e congenita inverosimiglianza delle dichiarazioni di Scarantino potesse
trarsi dalle peculiarita` del soggetto in questione, criminale di infimo
livello e dalla personalita` borderline, sconosciuto a tutti i collaboratori di
giustizia palermitani ed estraneo a ogni vicenda processuale riguardante cosa
nostra a Palermo, tanto da non essere mai stato utilizzato quale collaboratore
di giustizia in processi celebrati innanzi all’autorita` giudiziaria
palermitana. Deve, infine, sottolinearsi che nell’individuazione di Scarantino,
oscuro delinquente di borgata, come soggetto in qualche modo coinvolto nella
strage di via D’Amelio, hanno avuto un ruolo il Sisde e personalmente il dottor
Bruno Contrada, successivamente arrestato e condannato per concorso esterno in
associazione mafiosa, il quale nel periodo immediatamente successivo alla strage
di via D’Amelio aveva avuto contatti con l’autorita` giudiziaria proprio per
l’effettuazione di informale attivita` d’indagine. Si e` detto informale
attivita` d’indagine perche´ e` fuori dal campo delle procedure codicistiche
ogni rapporto fra la magistratura e appartenenti ai servizi di sicurezza, come
era a quel tempo il dottor Bruno Contrada.
Conseguirono alle false dichiarazioni di Scarantino
numerose condanne all’ergastolo per le quali solo nel 2012, sulla scorta delle
piu` recenti acquisizioni, e` giunto da parte della Procura della Repubblica di
Caltanissetta l’avvio, presso l’autorita` giudiziaria di Catania, del
procedimento di revisione.
E` stato grazie alle sopravvenute rivelazioni del
mafioso Gaspare Spatuzza (per il quale va segnalato il rigetto massimamente
inopportuno del programma di protezione, inizialmente emesso dalla Commissione
centrale ex art. 10 della legge n. 82 del 1991), che la Procura della
Repubblica di Caltanissetta, a partire dal 2008, ha accertato i depistaggi
operati con le dichiarazioni di Scarantino e ha raggiunto l’accertamento della
verita` sulle modalita` esecutive della strage e su alcuni altri elementi
relativi all’evento delittuoso in questione. Ne e` scaturito il processo appena
avviatosi nei confronti di Salvatore Madonia e altri, per il quale e` prevista
l’udienza preliminare il prossimo 31 gennaio innanzi al G.u.p. presso il
Tribunale di Caltanissetta.
Nella ricostruzione consentita dalle dichiarazioni di
Spatuzza, il dato piu` significativo e` la centralita` che nell’esecuzione
della strage ha avuto il mandamento mafioso di Brancaccio guidato dal boss
Giuseppe Graviano, tenuta coperta dalla versione Scarantino e sostituita con
quella del mandamento di S. Maria di Gesu` diretto dal boss Pietro Aglieri. Il
ruolo di Graviano (in quel momento latitante e poi arrestato il 27 gennaio 1994
a Milano) e dei suoi affiliati nella strage di via D’Amelio, peraltro, crea un
filo che lega, attraverso taluni degli esecutori materiali (tra cui Spatuzza)
appartenenti al mandamento di Brancaccio, con le stragi eseguite da cosa nostra
nel 1993 in continente. Nella descrizione dei fatti offerta da Spatuzza, nel
corso del biennio, i fratelli Graviano allacciarono contatti con Marcello
Dell’Utri e, attraverso di lui, con Silvio Berlusconi. Rimane una valutazione
da approfondire in sede di Commissione parlamentare Antimafia sul peso che le
stragi del 92/93 hanno avuto sull’avvio della cosiddetta seconda Repubblica.
Fra gli aspetti rimasti oscuri in relazione alla
strage di via D’Amelio, uno e` destinato a destare nell’intero paese, fino a
quando non verra` finalmente illuminato dalla verita`, enorme e insopprimibile
angoscia. Si tratta della scomparsa dell’agenda rossa utilizzata da Paolo
Borsellino per annotare le proprie piu` riservate riflessioni e piu` delicate
intuizioni, soprattutto a partire dall’uccisione del suo fraterno amico
Giovanni Falcone, sulla cui morte egli aveva pubblicamente dichiarato (il 25
giugno 1992) di possedere elementi utili all’accertamento della verita` che avrebbe
desiderato riferire ai magistrati competenti quando fosse stato convocato in
veste di testimone. Probabilmente anche quegli elementi furono annotati da
Paolo Borsellino nella sua agenda rossa, che, per univoca testimonianza di
tutte le persone a lui piu` vicine, teneva sempre con se´. Anche mentre si
dirigeva in via D’Amelio nel pomeriggio del 19 luglio 1992 quell’agenda rossa
era custodita nella borsa professionale che il magistrato palermitano aveva con
se´. Tale circostanza e` stata incontrovertibilmente attestata dalla
testimonianza dei familiari del magistrato ucciso, a partire dalla moglie.
Per lunghi anni di quell’agenda rossa investigatori e
magistrati non seppero nulla. Sull’auto blindata dalla quale Borsellino era
sceso pochi secondi prima della deflagrazione mortale fu rinvenuta la sua borsa
professionale. All’interno, secondo quanto risultante da un verbale di
sequestro effettuato tuttavia solo mesi dopo con inspiegabile ritardo, non
venne rinvenuta l’agenda. Soltanto nel 2005 vennero reperite dall’autorita`
giudiziaria alcune fotografie e poi un filmato che riproducevano l’immagine di
un uomo in borghese che teneva in mano la borsa del magistrato e che si
allontanava dall’automobile di Borsellino con passo non affrettato, quando
ancora le fiamme scaturite dalla tremenda esplosione non erano ancora state
spente.
Ne e` derivato un processo a carico dell’uomo,
l’ufficiale dei carabinieri Giovanni Arcangioli, al tempo in servizio presso il
Reparto operativo dei carabinieri di Palermo. Il processo, con l’imputazione di
furto aggravato, si e` concluso con la sentenza di non luogo a procedere emessa
l’1 aprile 2008 dal G.u.p. presso il Tribunale di Caltanissetta, poi confermata
dalla Corte di cassazione, che ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto
dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta il 17 febbraio 2009.
Tuttavia, al di la` dell’esito di quel procedimento
penale, non possono essere trascurate le difficolta` che i magistrati hanno
avuto nel tentativo di accertare le modalita` con le quali la borsa di Paolo
Borsellino sia stata estratta dall’auto blindata, il luogo esatto in cui
l’allora capitano Arcangioli si sia recato con la borsa in mano e le modalita`
con cui la borsa sia stata nuovamente riposizionata sulla stessa auto, dove venne
rinvenuta in un secondo momento. Al riguardo vanno rilevate le sibilline
dichiarazioni rese dallo stesso Arcangioli, che sostenne di aver raggiunto con
la borsa in mano la vicina via Autonomia siciliana, laddove avrebbe appreso
(come e da chi? e com’era possibile solo pochi minuti dopo la strage?) che le
indagini sulla strage erano state affidate al ROS.
Sempre al riguardo di Paolo Borsellino merita una
sintetica citazione un episodio avvenuto l’1 luglio 1992. Quel giorno al
Viminale si insediava il nuovo ministro dell’interno onorevole Nicola Mancino,
subentrato al precedente ministro Vincenzo Scotti in occasione della
costituzione del nuovo governo, presieduto dall’onorevole Giuliano Amato. La
sostituzione di Scotti con Mancino e` rimasta ingabbiata in spiegazioni che e`
impossibile raccogliere come convincenti. Il ministro Scotti, in comunione
d’intenti con il ministro di grazia e giustizia Claudio Martelli, si era reso
protagonista di una linea rigorosa di contrasto alla criminalita` organizzata.
Per questo Scotti si era attirato significative avversita` anche all’interno
del proprio partito. Quelle avversita` esplosero con l’emanazione del decreto
legge n. 306 dell’8 giugno 1992, con l’importantissima introduzione del carcere
duro per i detenuti mafiosi (art. 41-bis comma 2 dell’ordinamento
penitenziario), sul quale notevoli perplessita` furono manifestate sia in molti
ambienti parlamentari, non sempre per genuine e legittime posizioni garantiste,
sia dallo stesso Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. E per questo
la sua sostituzione con l’onorevole Nicola Mancino, esponente della stessa
corrente della sinistra DC nella quale militava l’onorevole Mannino, sembra il
primo segnale che viene dato dell’inversione di rotta rispetto alla linea ferma
Scotti-Martelli concretatasi fino all’adozione di quel decreto-legge. Fatto e`
che l’1 luglio 1992 Paolo Borsellino si trovava a Roma intento a interrogare
per la prima volta un importantissimo collaboratore di giustizia, Gaspare
Mutolo. Prima dell’avvio dell’interrogatorio, Mutolo aveva riferito
informalmente al magistrato che, al termine delle sue dichiarazioni sugli
appartenenti a cosa nostra operanti in stato di liberta`, avrebbe dovuto
verbalizzare quanto a sua conoscenza in ordine alle collusioni con cosa nostra
di due esponenti istituzionali: il dottor Domenico Signorino, magistrato
palermitano, e il dottor Bruno Contrada. Mentre l’interrogatorio era in corso
Paolo Borsellino ricevette una telefonata con l’invito a recarsi al Viminale
dove si era appena insediato l’onorevole Mancino. Ivi giunto, oltre ad aver
incontrato il nuovo ministro (sul punto Nicola Mancino ha reso varie e
differenziate e per nulla convincenti dichiarazioni, arrivando ad affermare di
non conoscere il volto di Paolo Borsellino, in quella data sicuramente uno
degli uomini piu` noti all’intero paese, la cui immagine compariva, dopo la
strage di Capaci, in continuazione in televisione e sui giornali come il
magistrato in assoluto piu` esposto contro la mafia), Borsellino si era imbattuto
anche nel capo della Polizia dottor Parisi e nello stesso dottor Contrada.
L’incontro impressiono` enormemente il magistrato. La Commissione parlamentare
Antimafia e` chiamata a verificare tutta una serie di responsabilita`
istituzionali e politiche che hanno consentito il passaggio da una fase di
lotta alla mafia, inspirata dagli indirizzi di Falcone, ad una fase priva di
strategia progettuale e compromissoria a partire da cedimenti registrati sul
41-bis.
* *
*
Nel 1992 si sviluppo` un altro contatto fra un
importante esponente di cosa nostra, responsabile della strage di Capaci, e un
soggetto esterno all’organizzazione mafiosa, Paolo Bellini. Quest’ultimo,
soggetto con pregressi legami nell’estrema destra, negli apparati d’indagine e
di sicurezza e con organizzazioni criminali (confesso` in anni successivi la
commissione di omicidi nell’interesse di organizzazioni ndranghetistiche
insediate in Emilia Romagna), a sua volta nello stesso periodo in cui coltivo`
i suoi rapporti con il mafioso Gioe´, intrattenne un’interlocuzione con un
maresciallo dei carabinieri, in servizio presso il Nucleo tutela patrimonio
artistico, al quale riferı` la possibilita` di infiltrarsi in cosa nostra. E`
certo che il discorso fra Bellini, presentatosi al mafioso come soggetto che
godeva di coperture istituzionali, e Gioe´ fu impostato intorno a due
argomenti: da un lato, la possibilita` che cosa nostra consentisse il recupero
di opere d’arte trafugate e, dall’altro lato, la possibilita` di ottenere
benefici penitenziari per alcuni importanti esponenti di cosa nostra (fra i
quali Pippo Calo`, Bernardo Brusca e Luciano Liggio). Gli aspetti piu`
significativi di questa interlocuzione, tuttavia, sono altri due: il primo e`
che fu proprio nel corso dei dialoghi fra Bellini e Gioe` che emerse l’ipotesi
di attentati alle opere d’arte e ai beni architettonici (nella specie, la torre
di Pisa) come arma utile per cosa nostra al fine di mettere sotto scacco lo
Stato e costringerlo ad accogliere le richieste provenienti dalla mafia; il
secondo e` che il maresciallo Tempesta, mentre conduceva i rapporti con
Bellini, manteneva al corrente dello sviluppo di tale trattativa l’allora
colonnello Mario Mori, rispetto al quale, pure, il maresciallo Tempesta non
aveva alcun vincolo di sottoposizione gerarchica.
Alcune osservazioni si impongono. Anche nel caso
della prolungata relazione fra Tempesta, Bellini e Gioe`, della quale fu
spettatore interessato Giovanni Brusca, e` appropriato parlare di trattativa
fra esponenti delle istituzioni e esponenti di cosa nostra, intermediata da un
soggetto borderline come Bellini. E` ovvio rilevare che questa trattativa ha
coinvolto soggetti di rilievo inferiore rispetto a quella avviata dal ROS con i
vertici di cosa nostra. Tuttavia, desta insopprimibili perplessita` il
coinvolgimento anche in questa trattativa, questa volta con funzioni di
conoscenza e di supervisione, dell’allora colonnello Mario Mori.
Non puo`, poi, non essere sottolineato che fu
proprio in occasione della trattativa coinvolgente Gioe`, Bellini e il
maresciallo Tempesta che nel convincimento dell’organizzazione cosa nostra fece
ingresso l’ipotesi dell’attentato ai beni architettonici e alle opere d’arte
come strumento per ottenere l’esaudimento delle proprie richieste da parte dello
Stato, con particolare riferimento al tema dei benefici penitenziari per i
mafiosi. Un lavoro di inchiesta della Commissione parlamentare Antimafia
sarebbe auspicabile qualora si utilizzassero i suoi pieni poteri non solo
acquisendo documenti in possesso dei Servizi Segreti italiani, ma procedendo
con atti piu` forti e ablativi al controllo diretto della documentazione
contenuta negli archivi dei Servizi e degli apparati di Polizia
* *
*
Nella notte successiva alla strage di via D’Amelio i
piu` importanti esponenti di cosa nostra in quel momento detenuti vennero
sottoposti, con trasferimenti in blocco, al rigore detentivo di cui all’art.
41-bis dell’ordinamento penitenziario, cosı` come modificato con il decreto
legislativo n. 306 dell’8 giugno 1992, convertito in legge solo dopo la strage
di via D’Amelio, il 7 agosto 1992. Da quel momento, fra i desiderata degli
uomini di cosa nostra al riguardo di modifiche legislative o abrogazione di
strumenti repressivi, la cancellazione dell’istituto di cui all’art. 41-bis fu
sicuramente quello piu` rilevante, ancor piu` cogente delle misure relative al
sequestro dei beni dei mafiosi.
Come si vedra`, e` certo che nelle fasi della
trattativa riferibili all’estate del 1993 l’abrogazione del carcere duro per i
mafiosi divenne un elemento affatto centrale.
* *
*
Per intanto, occorre rilevare come nel novembre 1992
nel pieno centro di Firenze, al Giardino di Boboli, fu ritrovato, sotto la
statua di un magistrato dell’antica Roma (Cautius), un proiettile
d’artiglieria. Quel proiettile era stato lı` posizionato dal mafioso catanese
Santo Mazzei, uomo d’onore molto vicino a mafiosi della provincia di Palermo
come lo stesso Antonino Gioe` e Giovanni Brusca. Una volta riposto il
proiettile e allontanatosi dai luoghi, Santo Mazzei, che aveva operato su
incarico di massima conferitogli da Giovanni Brusca, aveva telefonato a una
redazione giornalistica rivendicando l’episodio a nome della Falange Armata.
L’eloquio particolarmente rozzo di Mazzei (detto «u carcagnusu») impedı` la
comprensione a chi ricevette il messaggio telefonico. Soltanto per questo
motivo il proiettile non venne trovato nell’immediatezza ma solo in momento
successivo e occasionalmente.
Tuttavia, e` di enorme significato che in quel
momento cosa nostra, al fine di creare allarme sociale e incutere terrore,
abbia in almeno un’occasione effettuato la rivendicazione di una propria azione
a nome della Falange Armata, locuzione indicante un’organizzazione dai tratti
eversivi e che era stata utilizzata per analoghe rivendicazioni in occasione di
numerosissimi episodi delittuosi, a partire dall’assassinio dell’educatore
penitenziario Umberto Mormile e dei delitti commessi dalla cosiddetta «banda
della Uno bianca». Come si vede, ritorna il tema carcerario. La scelta di
procedere a rivendicazioni coincide con l’atteggiamento che in quel periodo
guido` le scelte stragiste di cosa nostra, la scelta cioe` di colpire
sanguinosamente lo Stato per farlo scendere a patti: la scelta della
trattativa. Occorre aggiungere che da plurime rivelazioni raccolte
dall’autorita` giudiziaria si puo` dire accertato che la scelta di rivendicare
i propri attentati a nome della Falange Armata deve essere attribuita ai
vertici di cosa nostra e fu nota soprattutto ai collaboratori di giustizia
dell’area catanese, dalla quale per l’appunto proveniva Mazzei.
L’episodio del proiettile al giardino di Boboli di
Firenze puo` essere ritenuto con chiarezza sia l’anello di congiunzione (in
senso temporale) fra le stragi del 1992 e quelle del 1993, (in senso geografico)
fra le stragi commesse in Sicilia e quelle commesse in continente a Firenze,
Roma e Milano, (nel senso degli obiettivi) fra le stragi che avevano avuto come
bersaglio i magistrati Falcone e Borsellino e quelle orientate contro beni
storici, artistici o architettonici e, infine, (nel senso degli scopi che
muovevano cosa nostra) fra le stragi con le quali si abbattevano alcuni uomini
simbolo della lotta alla mafia e le stragi compiute al fine di ottenere la
revoca del 41-bis.
Insomma, puo` dirsi che il rinvenimento del
proiettile al Giardino di Boboli di Firenze costituisca il passaggio da una
fase all’altra della trattativa Stato-mafia.
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Va sottolineato che, intanto, fra i detenuti
italiani era entrato anche il boss Salvatore Riina, arrestato il 15 gennaio
1993 proprio dagli uomini del ROS, cioe` lo stesso organismo che aveva trattato
con il mafioso provenzaniano Vito Ciancimino. L’arresto di Riina fu
accompagnato dalla gravissima omissione relativa alla mancata perquisizione del
covo di Riina, episodio dal quale scaturı`, a distanza di anni, un processo a
carico del colonnello Mario Mori e dal capitano Sergio De Caprio, poi
conclusosi con l’assoluzione degli imputati con la formula «perche´ il fatto
non costituisce reato». Va comunque fatto notare, la singolare coincidenza, che
la piu` pericolosa organizzazione criminale italiana ed internazionale si reca,
come se niente fosse, nel covo di Riina per ripulirlo del tutto, soprattutto
dei possibili documenti sul presupposto che non ci fosse un controllo delle
forze dell’ordine. Cosı` pure un reparto specializzato dei Carabinieri,
ritenuto una delle migliori realta` investigative, dimentica di procedere ad un
controllo di quello che era considerato il covo della guida di cosa nostra.
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*
Nel marzo 1993 una lettera anonima, apparentemente
scritta da familiari di detenuti ristretti in regime di carcere duro, fu
inviata a numerosi destinatari, fra i quali il Presidente della Repubblica e
(per conoscenza) il Papa, il Vescovo di Firenze e il giornalista Maurizio
Costanzo, contenente dure recriminazioni contro lo Stato e minacce al Capo
dello Stato per l’asprezza nell’applicazione del 41-bis e soprattutto
contenente la richiesta di allontanare dalla direzione del Dipartimento per
l’amministrazione penitenziaria il dottor Nicolo` Amato.
Letta con il senno di poi, alla luce degli attentati
che colpirono il giornalista Costanzo (il 14 maggio 1993 a Roma), la citta` di
Firenze e gli edifici religiosi di Roma, puo` dirsi che non e` stata un fuor
d’opera la definizione di «victims’list».
Il 6 marzo 1993 il dottor Nicolo` Amato invio` ai
ministeri dell’interno e della giustizia con la quale, fra l’altro, il
direttore del D.a.p. scrisse esplicitamente della revoca del carcere duro e
riferı` le perplessita` del capo della Polizia dottor Vincenzo Parisi sul 41-bis
e le sollecitazioni del ministero dell’interno per la revoca dei decreti 41-bis
nelle sezioni dei penitenziari di Poggioreale e Secondigliano.
E` certo che con l’inoltrarsi del 1993 sul 41-bis aumentarono
i fastidi di cosa nostra e contemporaneamente si determinarono le premesse per
i sommovimenti nella struttura del D.a.p..
* *
*
Nella notte fra il 26 e il 27 maggio 1993
un’autobomba esplose a Firenze in via dei Georgofili, innanzi alla Torre dei
Pulci. A occuparsi dell’esecuzione della strage, che provoco` cinque vittime
inermi (fra le quali due bambine) e immani danni al patrimonio artistico e
architettonico, furono uomini d’onore dell’area di Brancaccio e della provincia
di Trapani, sotto la guida dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano e del boss
Matteo Messina Denaro.
Il 14 maggio 1993, intanto, era stato posto in
essere un attentato alla vita di Maurizio Costanzo, mediante l’esplosione di
un’autobomba.
* *
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Il 5 giugno 1993 furono di fatto estromessi dalla
guida del D.a.p. il direttore dottor Nicolo` Amato ed il vicedirettore dottor
Edoardo Fazzioli. La determinazione venne assunta in modo improvviso e, come
inequivocabilmente accertato in sede giudiziaria, con il fattivo coinvolgimento
del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Al posto di Amato venne
nominato dal ministro di grazia e giustizia il professor Giovanni Conso alla
guida del D.a.p. il dottor Adalberto Capriotti, Procuratore generale a Trento,
la cui principale caratteristica, come pacificamente acclarato, era la mitezza
d’animo.
Per il ruolo di vicedirettore del D.a.p. fu
individuato il dottor Francesco Di Maggio, gia` sostituto procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Milano, poi in servizio presso l’Alto
commissariato antimafia e infine, fino a quel momento, rappresentante del
governo italiano presso l’Agenzia antidroga dell’Onu a Vienna. Le modalita`
della nomina del dottor Di Maggio a vicedirettore del D.a.p. destano enorme
sconcerto. L’individuazione del dottor Di Maggio avvenne con l’intervento
determinante del Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro (che coinvolse anche
monsignor Curioni e monsignor Fabbri, ispettore e viceispettore generale dei
cappellani), seppure e` banale sottolineare come cio` esorbitasse dalle
attribuzioni del Presidente della Repubblica. E` altrettanto certo che alla
individuazione del dottor Di Maggio fu sostanzialmente estraneo il ministro pro
tempore prof. Giovanni Conso. Per quanto dichiarato ai pubblici ministeri di
Palermo al riguardo il professor Conso e` oggi indagato per il reato di false
dichiarazioni al pm. L’allora ministro, sentito quale testimone nel
procedimento relativo alla trattativa Stato-mafia, infatti, dichiaro` di non
aver mai conosciuto fino a quel momento il dottor Francesco Di Maggio ma di
averlo apprezzato in occasione delle partecipazioni del magistrato alla
trasmissione televisiva Maurizio Costanzo Show. E` altrettanto certo che il
dottor Francesco Di Maggio era persona legata da antichi rapporti fiduciari al
capo della Polizia dottor Parisi, a esponenti dei servizi segreti e ai vertici
del ROS.
Sennonche´, il dottor Francesco Di Maggio, a cagione
della sua scarsa anzianita` di servizio, era al tempo magistrato di tribunale.
Per l’assunzione del ruolo di vicedirettore generale del D.a.p. era presupposto
necessario il rango di magistrato di cassazione. Fu per questo che per
consentire la nomina del dottor Di Maggio fu emesso un decreto del Presidente
della Repubblica, in data 23 giugno 1993, con il quale, in esito a una formale
deliberazione del Consiglio dei ministri, gli venne attribuita, ad personam, la
qualifica di dirigente generale della pubblica amministrazione.
E` stato univocamente accertato in sede giudiziaria
che il vero dominus del D.a.p. nel periodo di suo servizio presso
quell’organismo fu proprio il dottor Di Maggio. A capo dell’ufficio detenuti
del D.a.p., competente sul 41-bis, fu, sotto la guida del dottor Di Maggio, il
dottor Filippo Bucalo, magistrato nato a Barcellona Pozzo di Gotto, cittadina
della provincia di Messina nella quale il dottor Di Maggio (i cui genitori
provenivano entrambi da Torretta, paesino a ovest di Palermo) aveva vissuto a
lungo durante l’infanzia e l’adolescenza.
Il 26 giugno del 1993 per la prima volta il D.a.p.
elaboro` una nota con la quale fu prevista una riduzione dei provvedimenti
applicativi del 41-bis, in relazione alle gia` cadenzate scadenze degli oltre
300 decreti emessi nel novembre 1992. Quel documento appare anche nel suo testo
come un «segnale di distensione» a cosa nostra. Tuttavia, per tutta l’estate
del 1993 non furono emessi provvedimenti di revoca di decreti 41-bis ne´
decaddero analoghi provvedimenti alla data di naturale scadenza.
Nell’agenda del colonnello Mario Mori, alla data del
27 luglio 1993 si rileva l’annotazione di un incontro con il dottor Francesco
Di Maggio concordato «per prob. detenuti mafiosi», quindi pacificamente
concernente il tema dell’applicazione del 41-bis. Nella stessa agenda, alla
pagina del 22 ottobre 1993, e` annotato un analogo incontro fra il colonnello
Mario Mori, il colonnello Giampaolo Ganzer, altro ufficiale in forza al ROS, e
lo stesso dottor Di Maggio.
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Nel frattempo, nella notte fra il 27 e il 28 luglio
1993 autobombe esplosero in via Palestro a Milano (provocando cinque vittime) e
davanti alla cattedrale di San Giovanni in Laterano e alla chiesa di San
Giorgio al Velabro a Roma. Anche dell’esecuzione di queste stragi si occuparono
le stesse frange di cosa nostra che gia` avevano agito ai danni di Maurizio
Costanzo e in via dei Georgofili a Firenze. Come avvenuto per il proiettile al
Giardino di Boboli, anche questi attentati furono rivendicati da cosa nostra
attraverso due comunicazioni anonime inviate a due quotidiani di rilievo
nazionale (il Corriere della Sera, di Milano, e il Messaggero, di Roma, citta`
colpite dalle stragi)
La strategia stragista di cosa nostra mirata a
ottenere un cedimento dello Stato, a partire dal 41-bis, quindi, ebbe
prosecuzione.
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In documenti emanati da organi di investigazione e
da organi di intelligence, uno dei quali conosciuto dal ministro Mancino e da
questi inoltrato al presidente della Commissione antimafia onorevole Luciano
Violante, si trova traccia esplicita della consapevolezza da parte
istituzionale della finalita` trattativista delle stragi compiute da cosa
nostra.
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Nella notte fra il 28 e il 29 luglio del 1993, nel
carcere romano di Rebibbia, il mafioso Antonino Gioe` si suicido` impiccandosi
alle sbarre della finestra con i lacci delle scarpe. In una lettera lasciata da
Gioe` in punto di morte, egli fece riferimento alla trattativa intrattenuta con
Bellini. Sono degni di rilievo i forti sospetti sulla sua morte manifestati dal
dottor Loris D’Ambrosio, come risultanti agli atti del processo palermitano a
carico di Bagarella e altri.
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Da risultanze documentali del processo in corso a
Palermo a carico di Bagarella e altri per la trattativa Stato-mafia risulta che
fra il 25 agosto e il 3 settembre 1993 il capo dell’ufficio detenuti del
D.a.p., dottor Filippo Bucalo, soggiorno` in un albergo a Taormina e in tale
occasione ebbe costante frequentazione con il capomafia di Barcellona Pozzo di
Gotto Rosario Pio Cattafi, il quale, secondo le risultanze investigative del
Gico della Guardia di Finanza di Firenze era legato al dottor Di Maggio fin
dalla comune adolescenza a Barcellona Pozzo di Gotto. Negli anni Ottanta,
Cattafi era stato sottoposto a indagini e perfino arrestato a Milano. I
procedimenti a suo carico erano stati trattati dal sostituto procuratore della
Repubblica dottor Di Maggio e si erano conclusi positivamente per Cattafi. Quei
contatti documentati dal Gico di Firenze comprovano addirittura i rapporti
diretti fra un importante esponente di cosa nostra e i vertici del D.a.p..
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Nello stesso periodo si intensifico` una trama di
messaggi intimidatori divulgati mediante telefonate rivendicate alla Falange
Armata ai danni di varie personalita` pubbliche, fra le quali rileva
principalmente il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.
Le indagini su tali accadimenti, intensificatesi in
conseguenza dell’ennesima minaccia telefonica nel cui testo erano state
ripetute testualmente parole pronunciate dal Capo dello Stato durante una
visita ufficiale in Finlandia e coinvolgenti la figlia (parole che non avevano
avuto alcuna divulgazione dagli organi di informazione), individuarono
un’utenza telefonica fissa dalla quale erano partiti messaggi intimidatori.
L’utenza risulto` in uso all’educatore penitenziario Carmelo Scalone, pure in
passato sottoposto a misure di tutela a causa dell’inserimento del suo nome fra
gli obiettivi della Falange Armata. Il 25 ottobre 1993 Carmelo Scalone venne
sottoposto a misura cautelare, dopo l’intercettazione di telefonate della
Falange Armata effettuate dall’utenza telefonica a lui in uso a Taormina. Nel
successivo processo Scalone venne condannato dalla Corte di assise di Roma ma
venne successivamente assolto nel giudizio d’appello.
Si impone qui la segnalazione di un accadimento
notissimo. Nella sera del 3 novembre 1993, il Presidente Scalfaro, facendo
riferimento alle propalazioni infamanti divulgate ai suoi danni da esponenti
del Sisde sottoposti a misura cautelare per la gestione dei fondi
dell’organismo, in un discorso trasmesso a reti unificate, collego` le stragi
mafiose alla campagna di calunnie intrapresa ai suoi danni.
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Il 31 ottobre 1993 giungevano a scadenza oltre
trecento decreti 41-bis emessi un anno prima. In relazione alla loro proroga
solo nell’imminenza della scadenza il D.a.p. chiese un parere alla Procura
della Repubblica di Palermo. Quell’ufficio giudiziario, con nota a firma dei
procuratori aggiunti Aliquo` e Croce, pur nella ristrettezza dei tempi, riuscı`
a trasmettere al D.a.p. una nota con cui si segnalava la somma inopportunita`
della mancata proroga. Cio` nonostante, quei decreti non furono prorogati. Fra
i beneficiari della mancata proroga vanno sottolineati nomi di importanti
mafiosi come Gaetano Fidanzati e Luigi Miano, l’uno palermitano e l’altro
catanese ma entrambi insediati ai vertici delle articolazioni impiantate da
cosa nostra a Milano.
Certo e` che cosa nostra otteneva un, sia pur
limitato, accoglimento delle proprie richieste. Ne deve essere derivato anche
un rafforzamento della propria componente piu` incline alla trattativa con lo
Stato, quella guidata da Bernardo Provenzano, che di lı` a poco vedra` anche
arrestati tutti i capimafia non in linea con la sua posizione.
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Ricevuto dallo Stato quel segnale di cedimento sul
41-bis e` certo che la strategia stragista di cosa nostra cesso`. Invero, alla
luce delle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, nel gennaio 1994 cosa nostra
tento` un ulteriore gravissimo attentato ai danni di militari dell’Arma dei
carabinieri nei pressi dello stadio Olimpico di Roma. Sulla mancata riuscita e sulla
mancata reiterazione del tentativo stragista, tuttavia, allo stato l’autorita`
giudiziaria non e` pervenuta a conclusioni univoche.
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Nell’autunno 1993 alcuni esponenti di cosa nostra
diedero vita a un movimento politico, denominato Sicilia Libera. Lo sviluppo di
tale movimento fu in breve tempo interrotto. Cosa nostra, stavolta sotto la
direzione del capomafia Bernardo Provenzano, decise di appoggiare alle elezioni
politiche del 27 e 28 marzo 1994 il partito Forza Italia.
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Trattando dei temi della presente nota, appare un
dovere morale ineludibile la citazione degli sforzi investigativi compiuti dal
magistrato fiorentino dottor Gabriele Chelazzi. Egli e` stato sicuramente il
piu` lucido analista della strategia stragista e trattativista di cosa nostra
nel biennio 1992-94. Proprio nel momento di concreto raggiungimento dei
risultati delle sue indagini, ormai mirate in modo netto sull’anomalo
atteggiamento del D.a.p. in materia di 41-bis nell’anno 1993, egli nella
mattina del 17 aprile 2003 venne trovato morto a seguito di apparente arresto
cardiaco. Sul suo cadavere non venne mai espletato l’esame autoptico. Di certo,
comunque, la sua morte, avvenne in un tremendo clima di isolamento nel quale il
dottor Chelazzi, come risultante da un’angosciante lettera vergata poche ore
prima di morire, si era trovato ad operare, anche all’interno del proprio
ufficio.
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In esito a quanto sopra rassegnato possono trarsi
alcune conclusioni. La prima e` che negli anni 1992-93 fra esponenti dello
Stato, a livelli non certo marginali, e cosa nostra intervenne un dialogo
avente ad oggetto l’abbandono della strategia stragista di cosa nostra in
cambio di un abbandono da parte delle istituzioni del rigore mostrato negli
anni 1991 e 1992.
Di questo dialogo, propriamente qualificato dalla
Corte di assise di Firenze come trattativa, ebbero contezza i piu` alti vertici
istituzionali, dai quali mai venne alcun intervento di ostacolo a quel dialogo.
Le stragi del ’92 le possiamo considerare come il
canale intorno a cui si chiuse il rapporto mafia-politica della prima
repubblica. Sulla trattativatrattative e` possibile ipotizzare entrarono in
scena piu` soggetti e si svilupparono in piu` fasi. Non solo cosa nostra ma
anche apparati dello Stato e soggetti politico-istituzionali di primo piano.
Compito della Commissione parlamentare Antimafia e` quello di approfondire il
sistema strutturale delle collusioni che caratterizzo` quegli anni. Va anche
valutata quanto peso` allora l’idea che cosa nostra fosse «il male minore» con
cui fare i conti pur di salvare il sistema politico che allora andava in
frantumi. Una storia antica e rovinosa quella di considerare la mafia non una
minaccia di primo piano contro cui investire tutte le energie dello Stato e della
politica. Avvenne cosı` durante lo sbarco delle forze alleate in Sicilia per
liberare il nostro Paese dal dominio nazi-fascista. Anche allora si penso` che
cosa nostra potesse essere considerata un possibile alleato con cui trattare e
concordare un controllo del territorio in grado di stabilizzare un assetto
istituzionale e politico. Cosa nostra e` invece una minaccia fondamentale con
cui non si puo` scendere a patti, pena l’inclinarsi delle fondamenta della
nostra democrazie e della genuina volonta` di cambiamento che si vuole
favorire.
Stessa riflessione va sviluppata intorno alle
stragi del ’93 su cui la Commissione parlamentare Antimafia doveva approfondire
di piu` avendo il coraggio di audire anche collaboratori e responsabili
istituzionali di primo piano che si sono alternati alla guida della nuova fase
della nostra democrazia. Non e` azzardato affermare che con le stragi del ’93
cosa nostra, a suo modo, partecipo` alla nascita della cosiddetta seconda
Repubblica al punto tale da impedire l’affondo finale contro di essa anche
quando si raggiunsero risultati ragguardevoli nella cattura dei latitanti e
nell’aggressione della parte soprattutto immobiliare dei patrimoni mafiosi.
Siamo lontani dal considerare le mafie una minaccia di primo piano su cui chiamare
a raccolta le migliori energie presenti nelle Istituzioni e nella societa`.
Siamo lontani dall’organizzare un’antimafia progettuale e sistemica in grado di
colpire le organizzazioni mafiose su tutti i loro versanti oltre quello
militare: finanziario-economico, locale-internazionale, politico-istituzionale.
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La maturita` (o, per converso, l’immaturita`) della nostra democrazia e` segnata dalla capacita` dello Stato di saper fare verita` sugli eventi che hanno caratterizzato la fine della cosiddetta prima Repubblica e la nascita della seconda. Tanto piu` cio` vale oggi, allorche´ quella fase della vita repubblicana sta giungendo al termine. Anche l’eventuale terza Repubblica che dovesse derivare dal nuovo appuntamento elettorale avra` un vizio genetico se la classe dirigente, come purtroppo avvenuto fino ai piu` alti vertici istituzionali, continuera` a dimostrarsi incapace o, peggio ancora, dolosamente omissiva nell’accertare ogni piega della stagione piu spinosa della vita repubblicana.
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